Professoressa Brandstätter, quali prerequisiti mentali devono essere presenti per recuperare la gioia di fare?
La risposta ovvia: la gioia di fare nasce quando l’attività stessa dà gioia. Questa è la forma più pura di motivazione intrinseca. E un’attività dà gioia quando qualcosa ci interessa, quando ci sentiamo competenti, ma soprattutto autodeterminati, cioè agiamo di nostra iniziativa. Possono esserci momenti in cui siamo completamente assorbiti dall’attività che svolgiamo fino a vivere un’esperienza di flusso.
Ne sentiamo parlare dagli sportivi. L’esperienza di flusso può verificarsi anche nell’esercizio della professione?
Da studi effettuati con chirurghi abbiamo appreso che molti di loro entrano in uno stato di flusso mentre operano. In un contesto impegnativo come la pratica chirurgica o odontoiatrica è richiesto anche un alto livello di competenza. Idealmente desideriamo svolgere un’attività che ci impegna in misura adeguata, né troppo né troppo poco. La situazione di impegno ai due estremi, se cronica, mina o addirittura distrugge la gioia di fare. Sostanzialmente, la gioia di fare presuppone che possiamo dedicarci a compiti che non sono solo in linea con le nostre capacità e competenze, ma si sovrappongono o quantomeno sono altamente sovrapponibili con i nostri valori e le nostre convinzioni interiori.
La gioia è una delle più importanti forze trainanti del fare umano. Come nasce questo stato d’animo?
Proviamo gioia quando gli eventi e le esperienze che viviamo favoriscono il raggiungimento dei nostri obiettivi. La sensazione di avanzare verso i nostri obiettivi personali è una delle fonti più importanti del nostro benessere. I sentimenti positivi sono ampiamente legati alle esperienze sociali. Dalle risposte a vari questionari sappiamo che molte persone provano sensazioni positive particolarmente intense nel contesto sociale. Ciò conferma la grande importanza dei bisogni sociali o della ricerca di un’inclusione sociale come fattori motivazionali. Abbiamo un bisogno fondamentale di essere visibili agli altri, di essere ascoltati, di essere accettati e di godere della fiducia dei nostri simili.
Quale peso attribuisce alla gioia rispetto ad altri fattori motivazionali?
I sentimenti positivi sono un elemento importante della soddisfazione nella vita, ma influenzano anche il benessere fisico e il successo delle relazioni sociali, nel contesto delle quali l’apprezzamento è un fattore chiave, a cui soprattutto i dirigenti, come ad esempio i medici dentisti con uno studio proprio, dovrebbero attribuire grande importanza. Quando le collaboratrici e i collaboratori si sentono valorizzati, si sviluppa un senso di appartenenza e la gioia di fare spicca il volo. Senza l’apprezzamento, la motivazione subisce un duro colpo. È in questi termini che non va sottovalutato il peso della gioia rispetto ad altri fattori motivazionali. Dalla letteratura sappiamo che le emozioni positive e la loro frequenza, in ciò includendo anche la gioia, influenzano fortemente la misura in cui siamo soddisfatti della nostra vita e il nostro benessere fisico.
Come può un medico dentista affermato mantenere nel tempo la gioia di fare?
È utile di tanto in tanto fermarsi a fare un bilancio di ciò che va bene così e può essere mantenuto e di ciò che varrebbe la pena cambiare. Non è detto che qualcosa che si è dimostrato valido una volta lo sia sempre. Ma spesso nel lavoro quotidiano non guardiamo neppure più con gioia ciò che funziona. E invece nulla alimenta di più la gioia se non qualcosa di ben fatto. Per un dirigente è anche estremamente importante condividere questa gioia con le sue collaboratrici e i suoi collaboratori.
I medici dentisti che hanno optato per la libera professione si trovano spesso sotto forte pressione...
Naturalmente, se si vive uno stato di tensione permanente, la gioia di fare ne risente. È proprio quando si è molto impegnati con una fitta agenda, che diventa essenziale prevedere anche delle pause. Da ricerche di psicologia occupazionale sappiamo che ai lavoratori della conoscenza, i cosiddetti knowledge worker, super-impegnati e con un alto profilo di competenze spesso manca la capacità di pianificare del tutto consapevolmente periodi di pausa e di vivere queste pause in modo consapevole.
A livello psicologico, c’è una sorta di predestinazione alla gioia di fare, nel senso di imprenditorialità o desiderio di aprire un proprio studio dentistico rispetto alla scelta di essere alle dipendenze di altri?
Oltre ai massimi requisiti di competenza professionale, c’è tutta una serie di tratti della personalità che predestinano un medico dentista alla libera professione. In primis, la convinzione a livello interiore di saper gestire uno studio dentistico. La sicurezza e la fiducia in sé sono probabilmente i prerequisiti più importanti. Altre qualità richieste sono la propensione al rischio e la resistenza allo stress. Occorre essere consapevoli del fatto che la libera professione richiede la capacità di gestire numerose sfide. Sono richieste anche competenza sociale e un modo di fare elegante, ad esempio con i finanziatori.
Cosa può motivare queste personalità a intraprendere la libera professione?
Un importante fattore motivazionale è la libertà di disporre di se stessi che deriva dall’esercizio della libera professione. Nelle personalità imprenditoriali il bisogno di autonomia è particolarmente marcato e l’autodeterminazione diventa il fattore chiave dell’automotivazione. In una teoria dell’autodeterminazione, gli psicologi statunitensi Edward L. Deci e Richard M. Ryan sostengono che in tutti gli individui sono presenti in egual misura i bisogni primari dell’autonomia, della competenza e dell’inclusione sociale. Ma numerosi studi evidenziano differenze tra le persone. L’autonomia è legata alla responsabilità e ogni individuo è libero di decidere il grado di responsabilità che desidera assumersi. Molte persone sono contente di essere alle dipendenze di altri. Si muovono in una «comfort zone» in cui sanno cosa devono fare. Altri aspirano alla massima autonomia possibile e la trovano nella libera professione.
Cosa può fare un medico dentista per evitare che la routine soffochi la gioia di fare?
Anche la routine cambia. Avere una routine professionale che influenza anche l’ambito odontoiatrico, è sicuramente auspicabile e importante perché offre un certo grado di sicurezza. L’eccellenza a livello professionale va di pari passo con routine che non devono essere infrante, perché anche dalle prassi derivano procedure fluide e corrette dal punto di vista tecnico.
Ma il termine routine ha anche una connotazione negativa. Cosa suggerisce di fare quando il personale dello studio si lamenta della monotonia del lavoro quotidiano?
Se per routine si intende quell’eterno tran-tran che ha un effetto paralizzante, è il momento di cambiare, perché la saturazione e la fatica a livello mentale sono tossiche per la gioia di fare. In psicologia occupazionale si usa il termine job crafting, a indicare l’azione di disegnare o ridisegnare l’attività professionale da parte degli stessi collaboratori.
Quali possibilità ne derivano?
In uno studio dentistico, questo può significare, ad esempio, un’alternanza del personale per alcune mansioni di routine, una maggiore libertà per i collaboratori di concerto con la direzione dello studio, misure organizzative per creare opportunità di apprendimento reciproco, una progettazione dell’ambiente di lavoro che consenta ai collaboratori di contribuire appieno con i rispettivi punti di forza e molto altro ancora.
Trovare idee per il job crafting è un modo ideale per coinvolgere l’intero team dello studio, ad esempio con brainstorming o workshop in piccoli gruppi. La partecipazione non promuove soltanto la motivazione ma rafforza anche il senso di appartenenza, intesa come coinvolgimento sociale.
È possibile trasmettere la gioia ad altri, ad esempio il personale dello studio e i pazienti?
Dalla ricerca nel campo della psicologia delle emozioni e della psicologia sociale sappiamo che con la loro presenza, sia verbale che non verbale, gli individui esercitano un’influenza sugli altri, a partire già dalla postura. Incontrare una persona con una forte presenza fisica e una gestualità accentuata, con un’espressione facciale aperta e un timbro di voce vivo è ben diverso dal dover interagire con una persona chiusa in se stessa, che tende a farsi piccola piccola e ci parla con voce monotona e bassa e non ci guarda.
Che cosa intende esattamente?
In studi di psicologia delle emozioni è emerso che lo stato d’animo di una persona ne influenza la postura, la mimica e la voce. Dalla voce si può capire se una persona è depressa o allegra. Con la nostra postura, la gestualità, la mimica e la voce esercitiamo un influsso sugli altri. Queste modalità espressive hanno quindi una funzione comunicativa. Se ci sentiamo giù di corda, inviamo un messaggio negativo a chi è nello stesso ambiente e queste persone finiranno per chiedersi subito: riguarda anche noi? Viceversa, una presenza decisa e aperta emana uno stato d’animo positivo. In psicologia si parla di emotional contagion, ovvero contagio emotivo. Se un dirigente «sprigiona» gioia di fare, fa divampare la scintilla al team dello studio e ai pazienti. Quindi la gioia di fare è decisamente contagiosa.